In questo approfondimento ho trovato necessario trattare della vittimizzazione secondaria, un ulteriore trauma che preme sulla donna vittima di violenza che sopravvive alla violenza e che decide di denunciarla. Sarà Nadia Somma, referente del Nuovo Osservatorio sulla vittimizzazione secondaria creato da D.I.Re, a spiegare le pieghe in cui si cela questa grave problematica, le contraddizioni in cui, strada facendo, si incorre, ciò che si dovrebbe fare e ciò che sarebbe consigliabile non fare, con un riferimento in chiusura al recente femminicidio che ha visto vittima la giovane Cecilia Hazana per mano del suo ex Mirko Genco, avvenuto a Reggio Emilia
Dott.ssa Somma cos’è la vittimizzazione secondaria?
“La vittimizzazione secondaria avviene, può venire, da parte di altri soggetti che non sono gli autori di maltrattamenti, di violenze. Questi ultimi sono gli attori primari, il soggetto primario che commette violenza. La vittimizzazione secondaria può essere messa in atto per esempio dai familiari della vittima, quando non le credono o la colpevolizzano per le violenze subite o non le offrono aiuto, sostegno. Ma può arrivare anche da parte di soggetti istituzionali,, in particolare quando una donna ad esempio chiede aiuto, si rivolge all’autorità giudiziaria per sporgere denuncia oppure per intraprendere una separazione legale. In questo caso chiedendo l’affidamento dei figli perché il marito/compagno ha commesso atti gravi di violenza anche in loro presenza. Per questo motivo vorrebbe che non venissero valutate le capacità genitoriali come padre. Invece si ritrova vittimizzata, colpevolizzata, non creduta e a volte ci sono donne che addirittura perdono nei Tribunali civili la collocazione dei figli. Abbiamo avuto casi in cui queste donne hanno perso anche la responsabilità genitoriale perché il loro desiderio di proteggere i figli da un padre violento è stato visto come ostativo, costituendo così motivo di annullamento della richiesta. Oppure la vittimizzazione secondaria può essere innescata quando le donne vittime di violenza non vengono credute nei Tribunali penali, vengono colpevolizzate. Anche i servizi sociali possono scatenarla, quando non viene riconosciuta la violenza, ma viene scambiata come conflitto, lite, aspro conflitto”
Se siamo ancora qui a parlarne vuol die che è una modalità ancora imperante..
“Si è molto imperante ancora e anche con delle sviste. Per esempio da parte dell’autorità giudiziaria. Io proprio qualche giorno fa ho pubblicato il caso di una donna che è arrivata al nostro Centro Antiviolenza chiedendo aiuto perché da 5 anni viveva un inferno con un marito che assumeva cocaina (ulteriore elemento di rischio). La donna ci ha mostrato un’archiviazione da parte del Tribunale di Ravenna perché in una di queste aggressioni lui l’aveva spintonata e le aveva dato un calcio. Per il Tribunale l’episodio è stato riconosciuto come fatto accidentale. La donna subiva soprattutto violenza psicologica e lui commetteva anche atti di autolesionismo davanti ai figli che hanno riportato traumi dalla situazione. Il Tribunale ha visto solo un piccolo pezzetto perché spesso le indagini della Polizia Giudiziaria non sono fatte in maniera approfondita. Questo è stato rilevato dal Rapporto della Commissione sul Femminicidio che ha analizzato i casi di donne uccise tra il 2017 e il 2018 con un’attenzione specifica a ciò che era avvenuto dal momento della loro denuncia alla loro morte. C’è una parcellizzazione ovvero i maltrattamenti che subiscono le donne vengono parcellizzati, nel senso che l’autorità giudiziaria prende solamente in esame quell’episodio, ma non viene fatto un approfondimento per far emergere eventuali altri episodi simili o se ce ne sono in corso. Non si riconosce la violenza, non si riconosce la violenza psicologica, si minimizza e quindi alla fine si arriva purtroppo ad archiviazioni di situazioni che in realtà sono solamente un episodio di una lunga sequenza di violenze e maltrattamenti. E aggiungo che l’italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo nel 2017 e nel 2021. La prima volta per il caso Elisaveta Talpis. Cittadina rumena e moldava residente in provincia di Udine, fu vittima di ripetuti atti di violenza domestica da parte del marito. La donna non venne tutelata e l’uomo la ferì gravemente e uccise il figlio”
(Qui a seguire, riporto testualmente da https://www.osservatoriosullefonti.it/
“Dalle vicende riportate in fatto si evince che la ricorrente, dopo avere richiesto l’intervento delle autorità di polizia in occasione di due aggressioni ravvicinate, aveva sporto denuncia contro il coniuge per lesioni personali, percosse e minacce, trovando nel frattempo accoglienza presso un centro antiviolenza. Trasmessa tempestivamente la denuncia alla Procura della Repubblica di Udine, erano però trascorsi oltre sette mesi prima dell’audizione della ricorrente, la quale, sentita dalla polizia giudiziaria, aveva attenuato la gravità dei fatti precedentemente denunciati. La Procura, tenuto conto delle mutate dichiarazioni e dell’assenza di episodi violenti successivamente alla denuncia, aveva richiesto e ottenuto dal giudice delle indagini preliminari l’archiviazione dei reati di maltrattamenti in famiglia e minacce; era proseguito, invece, il solo procedimento penale per lesioni personali aggravate3 . Qualche mese più tardi, il coniuge compiva una terza aggressione, culminata con il tentativo di omicidio della sig.ra Talpis, che nel frattempo aveva fatto ritorno alla casa familiare, e l’uccisione del figlio” n.d.r.)
“In seguito a questa prima denuncia, quella del 2017 – continua il racconto di Nadia Somma – l’Italia è stata mantenuta sotto vigilanza rafforzata, quindi il Comitato del Consiglio dei Ministri d’Europa che verifica che gli Stati membri abbiano posto rimedio alle cause che hanno portato alla lesione dei diritti dei propri cittadini, hanno chiesto una documentazione sul caso Talpis. Lo Stato italiano ha presentato dati parziali tra cui anche quello sulle archiviazioni che il Comitato ha giudicato in un numero troppo elevato. In Italia ci sono troppe archiviazioni. E come bengono interpretate queste archiviazioni? Come false denunce. Quindi di nuovo si sposta la colpa sulle donne e si alimenta il pregiudizio che le donne dicono menzogne. Vorrei ricordare non solo i casi di femminicidio analizzati dalla Commissione apposita di donne che avevano denunciato e che poi sono state uccise, ma anche altri casi eclatanti come quello di Marianna Manduca. 12 denunce tutte archiviate”
(riporto testualmente: ‘Marianna Manduca fu brutalmente uccisa dal marito nel 2007 e lo Stato fu condannato a risarcire i tre figli perché, nonostante le dodici denunce di Marianna, non fu in grado di proteggere la donna, vittima di femminicidio’ n.d.r.)
“Oppure i casi di donne che hanno perso i figli nonostante le denunce. Pensiamo ad Antonella Penati che chiedeva aiuto allo Stato. Il figlio è stato ucciso dal padre”
(A seguire riporto testualmente dal sito
https://alleyoop.ilsole24ore.com/2021/05/24/caso-penati-perde-strasburgo-non-si-ferma/
‘Antonella Penati, la madre di Federico Barakat, ucciso durante un incontro protetto col padre, ha perso, dopo sei anni, il ricorso a Strasburgo con il quale chiedeva la condanna dello Stato italiano per non aver protetto il diritto alla vita di suo figlio. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha ritenuto, infatti, che il ricorso fosse inammissibile da punto di vista sostanziale, dato che la donna aveva accettato 100mila euro e si era accordata su un nulla a pretendere nel corso di un processo civile contro i servizi sociali, ammissibile sotto il profilo procedurale, ma non ha ravvisato la violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita) della Convenzione europea. Di fronte a questo responso Antonella Penati e i suoi legali non si fermano e stanno preparando l’appello alla Grande Camera’ n.d.r.)
“Oppure i fratelli Iacovone”
(Riporto testualmente dal sito: https://www.ilgiorno.it/brescia/cronaca/uccise-figli-ergastolo-
‘Ono San Pietro (Brescia), 13 aprile 2017 – Confermato anche in Cassazione l’ergastolo nei confronti di Pasquale Iacovone, l’uomo che il 16 luglio 2013 a Ono San Pietro, in Valle Camonica, uccise i suoi due figli Andrea e Davide di 9 e 12 anni. Iacovone, secondo quanto ricostruito dai giudici di primo e secondo grado, dopo avere soffocato i due bambini ha dato fuoco all’abitazione dove si trovava con i figli, che finirono carbonizzati. “Sono innocente, c’è stato un incendio, ma non c’entro con la morte dei miei figli”, aveva detto Iacovone nel corso del processo di Appello a cui aveva preso parte con una maschera protettiva sul volto per coprire le ustioni riportate nel rogo e che ricoprono il 90% del suo corpo.
I giudici non gli hanno mai creduto. Iacovone per loro aveva agito per vendicarsi nei confronti della ex moglie Erika Patti, alla quale in un sms aveva scritto: “Ti ammazzo i figli”. Queste le motivazioni del gesto, per il presidente della Corte d’Assise d’Appello di Brescia, Enrico Fischetti, che aveva confermato l’ergastolo del processo di primo grado: “Voleva uccidere i figli e assaporare il gusto tremendo di vedere soffrire in modo indescrivibile la ex moglie di fronte corpi carbonizzati”. La donna ieri era a Roma per seguire l’udienza davanti alla corte di Cassazione. “Pena confermata. Ergastolo. Marcisci in galera ora”, lo sfogo che l’ex moglie di Iacovone ha lasciato sulla sua pagina di Facebook’ n.d.r.)
Questa situazione di ‘parcellizzazione’, come si è detto, d cosa è determinata, secondo lei, secondo la sua esperienza attraverso l’Osservatorio di cui è referente?
“E’ sempre una mancanza di formazione. Stiamo parlando di criticità, ma in Italia ci sono anche tante eccellenze, per esempio abbiamo città, province, dove le forze dell’ordine sono formate, lavorano in rete coi Centri Antiviolenza, a volte sono stati anche sottoscritti protocolli presso le Prefetture. C’è inoltre una formazione adeguata anche in chi accoglie la denuncia in modo tale che l’indagine non si limiti a quel singolo caso, ma si attui un approfondimento, che permetta di riconoscere la violenza, di distinguerla dal conflitto, di riconoscere la violenza psicologica. Ci sono invece situazioni in cui le forze dell’ordine non sono formate. La stessa cosa vale per la Magistratura che vede ancora un 10% di Procure non specializzate in questo ambito e la Magistratura giudicante ha una percentuale molto bassa di formazione. Quindi il problema è sempre quello di una mancanza di formazione, anche in questo caso per riconoscere la violenza e anche per prendere coscienza dei propri pregiudizi nei confronti delle donne.
La seconda condanna di Strasburgo all’Italia, di cui accennavo prima, ha visto l’accoglimento del ricorso di una giovane donna che aveva denunciato di essere stata vittima di uno stupro di gruppo la notte del 25 luglio 2008, mentre la Corte di Appello di Firenze assolse i 7 uomini. Le motivazioni della sentenza erano tutte o quasi rette su pregiudizi sessiti, sulla vita sessuale della ragazza, sui suoi comportamenti scorretti che avrebbe tenuto quella sera, sul fatto che indossasse mutandine rosse, che aveva scherzato con quegli uomini che poi lei denunciò. Tutta una serie di valutazioni morali sulla ragazza che ha convinto i giudici a stabilire che non fosse persona credibile. Queste sono le conseguenze di pregiudizi e causa di vittimizzazione secondaria. La Corte di Strasburgo nel maggio del 2021 ha stigmatizzato, disapprovato la sentenza nella condanna all’Italia”
Secondo lei sta aumentando la consapevolezza che per affrontare cause del genere sia necessario essere formati, specializzati.. direi?
“Se ne parla molto, oggi si parla soprattutto di ‘vittimizzazione secondaria’ come non se ne era mai parlato prima e di ‘vittimizzazione istituzionale’. E’ un buon segno. Vuol dire che si sta evidenziando il fatto che che per donne che decidono di interrompere una relazione con un uomo violento, ci sono ostacoli. Però se noi non abbiamo un Governo che rende costante la formazione, capillare, che la finanzia, difficilmente si rusicirà a sanare le lacune”
Cosa pensa del Codice Rosso?
“Penso che abbia degli aspetti critici nel senso che il fatto di ascoltare immediatamente o in breve la vittima attraverso la Polizia giudiziaria, ha causato in alcune Procure, una sorta di imbuto. Prima i Magistrati attivavano una valutazione della denuncia per dare priorità o meno. A noi è successo anche che alcune donne non siano mai state sentite, non capiamo cosa sia successo. Una donna, ad esempio, che ha subito un fatto grave, un tentativo di strangolamento. Nei tre giorni seguenti l’episodio non è mai stata ascoltata. La velocità dell’intervento però non può essere disgiunta dalla qualità dell’intervento di protezione delle donne, per cui è fondamentale ci sia un lavoro di rete tra servizi sociali, forze dell’ordine e Centro Antiviolenza. E che sia sviluppata una valutazione del rischio, mettendo allo stesso tempo la donna in sicurezza, perché la denuncia da sola, non basta”
Sempre a proposito di Codice Rosso, c’è un altro elemento di frizione. “L’articolo 6 prevede che con riguardo ai reati di violenza domestica e di genere, la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati”. Un passaggio che avrebbe interessato anche Mirko Genco, il reo confesso dell’omicidio della sua ex Cecilia Hazana avvenuto il mese scorso a Reggio Emilia, tempo addietro. La vittima infatti aveva già sporto denuncia contro di lui per stalking a cui era seguita una condanna e un patteggiamento a due anni di carcere. Con la sospensione però, della condizionale concessa, a patto che l’uomo si rivolgesse ad un centro di recupero per uomini violenti. In effetti sembra che abbia contattato un centro a Parma, ma che non sia mai arrivato a frequentare il secondo appuntamento.
“C’è da dire che la sospensione della condizionale della pena, può anche non essere data facendo una valutazione del rischio. Io non ho compreso perché la Presidente del Tribunale di Reggio Emilia relativamente al femminicidio da lei citato, abbia dichiarato che i magistrati non sono chiaroveggenti. La violenza ha delle dinamiche ben precise, si sono indicatori precisi per valutare il rischio.Tanto è vero che la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per il caso Talpis proprio perché lo Stato italiano non aveva previsto, non era stato in grado di prevedere ciò che invece era più che prevedibile. Se si è di fronte ad un uomo alcolista che minaccia con le armi in più di un’occasione e fa stalking alla ex, ci sono elevatissime possibilità di rischio. Non si può dire ‘non si poteva prevedere’. Poi ci sarebbe da verificare meglio l’andamento dei percorsi, non è sufficiente che un uomo si rechi presso questi centri. Dovrebbero essere fatte delle verifiche perché in ogni caso esiste il rischio di un uso strumentale del ricorso ai CAM (Centri di Ascolto uomini Maltrattanti) per ottenere benefici di legge. Nel nostro centro capita qualcosa di paradossale. A chiamarci sono gli avvocati degli uomini violenti per chiederci dove si trovano i CAM. Il rischio è proprio questo. Dovrebbe essere evitato l’uso strumentale. Sono percorsi che se non sono fatti spontaneamente, non hanno alcun valore”
Patrizia Santini